Tra qualche minuto poggerò il culo sul letto, poi mi stenderò e chiuderò gli occhi come sotto anestesia. Di rado riesco a svegliarmi completamente riposato, forse perché non mi stanco mai del tutto. Fuori è ancora buio nonostante io voglia vedere le prime luci del giorno. Vorrei che le giornate italiane fossero identiche a quelle dei Poli: sei mesi colmi di luce e sei mesi avvolti nella notte. Per le ore a venire non ho in programma nulla di particolare e sono convinto che anche questo venerdì trascorrerà in sordina. Alle volte è divertente vivere di morte apparente: lo giuro. Concludo la giornata con un sorriso, do una pacca sulle spalle al mio guanciale e censuro i miei sensi per le prossime nove ore.
Mi masturbo almeno una volta al giorno e sollecito la mia eccitazione con immagini digitali di veneri disinibite. Spesso parlare di masturbazione provoca un imbarazzo ingiustificato, forse dovuto a una mentalità antiquata. Le protagoniste delle mie fantasie sono donne quarantenni con corpi imperfetti. L’idea del coito con una donna matura provoca in me una forte eccitazione perché fa perno sul gap generazionale. Nella realtà non riuscirei mai a fare sesso con una fanciulla più grande di me, perciò tutto quello che riguarda la mia libidine nei confronti delle donne mature è legato unicamente alla sfera del chimerico. Per me la masturbazione è un getto di liquido seminale che espelle lo stress e rende i coglioni più leggeri: è un’occasione quotidana per incontrarsi con la propria sessualità.
Non ho responsabilità, non ho impegni, non ho orari da rispettare né persone a cui rendere conto. Non faccio un cazzo dalla mattina alla sera, ho molto tempo a mia disposizione e pochi modi per impiegarlo. Ogni giorno ho un enorme surplus di ore. Alla luce di tutto questo credo di potermi definire libero. C’è un problema: cosa me ne faccio di cotanta libertà? Voglio delle catene, ma non troppo strette: voglio essere schiavo della passione e di tutti gli eventi che gravitano attorno a questa creazione invisibile degli esseri umani. L’abbdondanza di libertà è stata un’ottima palestra per temprare il mio carattere, ma è arrivato il momento di liberarmene. Penso che passare tutta la propria esistenza ai confini della libertà sia la massima espressione di nichilismo: non credo che ne valga pena. Aspetto la mia grande occasione senza certezze di consegna. Se fossi nato in India, tra le mura di una fatiscente fabbrica di palloni, non la penserei allo stesso modo; ovvio, no?
Oggi sono andato dal mio dentista per una breve seduta di igiene orale e sono tornato a casa percorrendo dodici chilometri a piedi. Il tempo non era dei migliori, infatti alcune gocce d’acqua hanno arrestato la loro caduta sul mio cranio. La pioggia è l’unica ossessione che mi aggrada. Ho camminato lungo strade poco frequentate, strade sterrate e fangose, popolate dal vuoto e decorate con antica immondizia. Le mie riflessioni piovane sono state incentrate sull’infinità di persone che mi sono lasciato alle spalle e sono continuate con l’abbandono dell’amarcord in favore di visioni lisergiche totalmente naturali. Mi sono immaginato in un corpo ibrido, in grado di raggiungere le profondità oceaniche senza difficoltà e con la capacità di vedere nell’oscurità. Mi trovavo negli anni ottanta e fluttuavo accanto a un sommergibile dell’URSS nelle acque dell’Atlantco. Mi piacerebbe aprire i mari per rovistare tra i relitti, saltando, correndo e pisciando sul fondale non più umido: passeggiare nella Fossa delle Marianne come lungo gli Champs Elysèe.
Mi sento leggero, quasi aeriforme. Il sax alto di Gato Barbieri su “Straight Into The Sunrise” mi accompagna alla fine di questa giornata priva di stimoli. Domani percorrerò un po’ di chilometri a piedi, ho voglia di camminare più del solito per liberarmi del senso di reclusione che aleggia nella mia stanza. In questo momento mi piacerebbe sentire due mani leggere sulle mie scapole, scrutarne le unghie, osservarne gli orpelli d’oro o di argento e poi vegetare con il capo indietro, avvolto da un alone di benevolenza. Il sonno eleva in modo esponenziale la glicemia delle mie chimere e non c’è insulina che possa rendere stabile il mio diabetico desiderio di complicità. In questo momento sto ascoltando “Wonderful Life” di Black, un pezzo ironico un po’ datato, ma sempre attuale per ogni bipede appartato nel proprio appartamento. “Look at me standing here on my own again, up straight in the sunshine”, cantava Colin Vearncombe durante le seconda metà degli anni ottanta. Sento aria di cambiamento nella mia vita, sebbene non ci sia nulla che giustifichi questa sensazione. Cazzo, non me ne rendo conto, ma sono giovane.
Sono quasi le cinque del pomeriggio. La mia stanza è buia, le persiane sono chiuse e le mie iridi riflettono la luce del monitor. Non so cosa scrivere, ma scrivo ugualmente. Lascio cadere parole sconnesse al suono di “Kind of Blue”, uno stupendo album di Miles Davis datato 1959. Mi sento spento come un cero acceso da un malato terminale e consumato da una fiamma labile; labile labile. Ogni tanto mi volto verso la finestra, osservo il mio riflesso e penso a quando sarò vecchio e prossimo alla morte. Non mi sento triste quando penso alla fine della mia vita, anche se ammetto di temere gli ultimi istanti di dolore. Vedo la morte come l’ultima fiche da giocare sul tavolo della roulette russa. Alcune volte ho pensato di uccidermi a scopo scientifico, per esplorare l’eventuale dopopartita. Altre volte sono apparsi in me pensieri luttuosi per motivi più intimi. Sono convinto che il genere umano svelerà il mistero della vita e della morte, a patto che non si estingua prima per mano della propria istintività. Non credo che questa sia un’epoca di grande progresso, dal mio modesto punto di vista ritengo che sia un’ennesima era transitoria, spartana ed eccessivamente legata al retaggio ancestrale. Vorrei vedere il futuro per cinque minuti e poi scordare la mia visione lungimirante per non guastare il normale scorrere del presente deriso dal divenire. Ho voglia di vivere a lungo e spero di rimanere lucido fino alla mia ultima sega. Ascolto l’ultima traccia di “Kind of Blue” e inizio a progettare l’espediente per ingannare i prossimi sessanta minuti pomeridiani.
Stanotte ho dormito solo cinque ore, ma non mi sento stanco. Fuori c’è una leggera pioggia obliqua che solletica i passanti incappucciati e sfregia i vetri della mia finestra. Mi piacerebbe voltare il mio viso a sinistra e vedere la mia baccante mancante con in mano una tazza di thè. La immagino avvolta in un cardigan, mentre osserva l’esterno sorseggiando acqua corretta con una bustina di Lipton. Alla mia sinistra non c’è nessuna menade, ma solo la nuova insegna di una banca. È una mattina voluttuosa. Sono sereno e tranquillo, rilassato e vagamente sorridente. Colloco l’ultimo mattone di questo cottage di parole e mi appresto ad assecondare la brama di movimento del mio corpo.
Departure, ovvero partenza per gli anglofoni. In questo breve scritto uso la partenza in senso lato per buttare giù due parole sul distacco e sull’addio. Molte persone non accettano la partenza di qualcuno a loro caro e alcune volte per sopportare la separazione tendono a fare del male a loro stesse o agli altri. Credo che le delusioni siano un’inevitabile variabile della vita, qualcosa a cui non ci si può sottrarre, e io stesso ho una vasta collezione di fallimenti. Spesso la delusione è il deterrente contro la felicità e impedisce lo sviluppo della persona, ne castra i desideri e la rende sempre più vulnerabile durante la senilità. Ammesso che io non muoia prima, non voglio diventare vecchio e guardare una carrozza di marzapane colma di rimpianti, perciò do un valore unico a tutti gli eventi e a tutte le persone che si trovano a collidere con l’orbita della mia esistenza, ma se perdo un sogno fatto persona o se un evento diventa incubo, non faccio altro che lasciarmi alle spalle le speranze riposte in certe anime e la fiducia accordata a certe situazioni e mi preparo per una nuova semina. Coltivo il culto della fedeltà, amo essere schietto e non mi preoccupo di risultare ridicolo. La mia fede non ha a che fare con nessuna divinità folkloristica, ma solo con la sinergia della monogamia. È importante accettare ogni rifiuto, ogni porta chiusa in faccia e ogni divieto inviolabile, è altresì importante non farsi prendere a calci in culo dalla tristezza e dallo sconforto. In questa vita posso essere solo un monogamo e non ho intenzione di spendere più di un minuto a contemplare le delusioni: cinquanta secondi per capire la negazione e dieci secondi per voltarmi e fare dieci passi avanti. Bisogna accettare che gli altri partano quando non c’è la possibilità di rimandare, e con questo non mi riferisco solo alla sfera affettiva. C’mon, take it easy.
La scorsa notte facendo zapping mi sono fermato su Raiuno e ho visto un film tedesco sull’amore tra fratello e sorella. Penso che innamorarsi della propria sorella sia qualcosa di meraviglioso e per questo motivo rimpiango di essere figlio unico. Immagino che erigere le colonne dell’eros con una coetanea consanguinea sia l’apoteosi della passione. A me piacerebbe essere innamorato della sorella che non ho e non avrei alcuna difficoltà a gestire il rapporto con la mia stupenda metà, anch’essa proviente dallo stesso utero nel quale ho alloggiato. Mi fa ridere il fatto che l’incesto consenziente sia demonizzato, mentre l’incesto violento sia in parte tollerato e accettato da un agglomerato sociale retrogrado e bigotto. Auguro del bene a tutti i fratelli e le sorelle che sul globo terrestre si dilettano tra chiavate e promesse basate sull’istinto di vita; amatevi e date sfogo alla vostra libido anche per me, ventunenne inesperto, in attesa che arrivi il mio treno.