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Afternoon jazz

Sono quasi le cinque del pomeriggio. La mia stanza è buia, le persiane sono chiuse e le mie iridi riflettono la luce del monitor. Non so cosa scrivere, ma scrivo ugualmente. Lascio cadere parole sconnesse al suono di “Kind of Blue”, uno stupendo album di Miles Davis datato 1959. Mi sento spento come un cero acceso da un malato terminale e consumato da una fiamma labile; labile labile. Ogni tanto mi volto verso la finestra, osservo il mio riflesso e penso a quando sarò vecchio e prossimo alla morte. Non mi sento triste quando penso alla fine della mia vita, anche se ammetto di temere gli ultimi istanti di dolore. Vedo la morte come l’ultima fiche da giocare sul tavolo della roulette russa. Alcune volte ho pensato di uccidermi a scopo scientifico, per esplorare l’eventuale dopopartita. Altre volte sono apparsi in me pensieri luttuosi per motivi più intimi. Sono convinto che il genere umano svelerà il mistero della vita e della morte, a patto che non si estingua prima per mano della propria istintività. Non credo che questa sia un’epoca di grande progresso, dal mio modesto punto di vista ritengo che sia un’ennesima era transitoria, spartana ed eccessivamente legata al retaggio ancestrale. Vorrei vedere il futuro per cinque minuti e poi scordare la mia visione lungimirante per non guastare il normale scorrere del presente deriso dal divenire. Ho voglia di vivere a lungo e spero di rimanere lucido fino alla mia ultima sega. Ascolto l’ultima traccia di “Kind of Blue” e inizio a progettare l’espediente per ingannare i prossimi sessanta minuti pomeridiani.

Francesco

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